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Nei primi secoli di vita del cristianesimo all’assemblea dei vescovi, il concilio o sinodo generale, è affidato il compito di risolvere i problemi della Chiesa: i conflitti che insorgono sulla dottrina, le questioni morali, le opinioni divergenti sulla distribuzione del potere al suo interno.
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Dottrina, ortoprassi, ecclesiologia sono le tre direttrici lungo le quali si sviluppano le idee, i progetti, le istanze di rinnovamento. Le riforme applicate a queste tre sfere diventano norme generali; il concilio si impone come l’istanza ultima di giudizio per tutti i fedeli e assume, di fatto, il governo dell’istituzione. Dal Medioevo, quando Roma si afferma come centro della cristianità occidentale, il concilio cessa d’essere lo strumento principale della riforma della Chiesa e il papato ne diventa il grande concorrente. Qual è dunque, in età moderna, il ruolo della sinodo? Quali poteri le restano, quale spazio nel governo della Chiesa? Tra l’autunno del Medioevo e le soglie della contemporaneità queste domande ricorrono frequentemente negli scritti, nei discorsi e perfino nella prassi politica e pastorale di trattatisti laici e di teologi, di religiosi e grandi prelati. A partire dal Quattrocento, la questione dell’identità del concilio si riafferma con forme e modalità inedite, si ripropone durante il Tridentino e ne segue la fortuna storiografica, fino a lambire gli esiti otto-novecenteschi della battaglia culturale che accompagna il processo di secolarizzazione. In questi secoli vengono proposte due concezioni diverse di riforma per concilia: la tradizione della restitutio e quella della instauratio. Alle due tradizioni fanno riferimento, tra Quattro e Cinquecento, i progetti di rinnovamento dell’istituzione e gli appelli all’assemblea conciliare. Successivamente, nell’età della Controriforma, esse ispireranno le narrazioni storiche di Paolo Sarpi e di Sforza Pallavicino e le loro opposte visioni del governo della Chiesa.